Il trattamento normativo delle lavoratrici in stato di gravidanza è un tema particolarmente delicato, in qualsiasi giurisdizione. Di recente, infatti, un caso verificatosi in un tale contesto ha reso necessario l’intervento della Corte di Giustizia dell’UE che, esprimendosi sulla normativa tedesca, ha condiviso un principio di diritto potenzialmente applicabile a ciascuno Stato membro. La Corte adita ha, tuttavia, sollevato dei dubbi tali da rendere necessario un rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, relativi all’applicabilità, a questo particolare caso, della normativa tedesca in materia. In particolare, quest’ultima prevede che il licenziamento sia considerato valido in caso di mancata impugnazione decorso il termine di tre settimane dalla sua comunicazione. In via eccezionale, sarebbe comunque ammissibile il ricorso proposto successivamente a tale scadenza, purché ciò avvenga entro il più breve termine di due settimane successive alla cessazione dell’impedimento che ha determinato la mancata proposizione del ricorso entro il termine ordinario menzionato (tre settimane). La legislazione non prenderebbe in considerazione eventuali ulteriori circostanze eccezionali, quali quella oggetto del rinvio in esame. Nel caso di specie, però, la lavoratrice, a causa dell’ignoranza relativa alla propria condizione, nonché in considerazione della difficoltà di depositare un ricorso completo entro il minor termine indicato, non era riuscita a rispettarne nessuno dei due. In generale, il giudice del rinvio ha nutrito dei dubbi rispetto alla conformità delle disposizioni ora esaminate con il diritto comunitario, soprattutto alla luce della pronuncia della CGUE (sentenza 29 ottobre 2009, Pontin) nonché della direttiva n. 92/85, in considerazione delle quali si dovrebbe ritenere che i mezzi di ricorso a disposizione di una donna incinta debbano essere oggetto di una normativa che rispetti il principio di effettività. Investita della questione, la CGUE, con sentenza del 27 giugno scorso (in C-284/23), ha valutato che, stando alla normativa tedesca, una lavoratrice gestante che sia a conoscenza, al momento del suo licenziamento, del suo stato di gravidanza, dispone di un termine di tre settimane per proporre ricorso avverso tale decisione mentre, dall’altro lato, una lavoratrice che non abbia conoscenza del suo stato di gravidanza prima della scadenza di tale termine – e, dunque, per un motivo che non le è imputabile – dispone solo di due settimane per chiedere di essere ammessa a proporre ricorso. Come valutato dalla Corte, dunque, ciò “presuppone una notevole riduzione del termine per farsi consigliare e, se del caso, per redigere e presentare non solo tale domanda di ammissione del ricorso tardivo, ma anche il ricorso propriamente detto. […] vale a dire un termine inferiore a quello di cui tale lavoratrice avrebbe potuto disporre se avesse avuto conoscenza della sua gravidanza al momento del licenziamento. Pertanto, tale termine di due settimane può avere l’effetto di rendere molto difficile, per detta lavoratrice, farsi consigliare utilmente nonché, se del caso, redigere e presentare la domanda di ammissione e il ricorso propriamente detto”. Sebbene nel nostro ordinamento non vi sia una specifica disciplina che contempli diversi termini per l’impugnazione di un licenziamento che il dipendente ritenga illegittimo, il principio di diritto potenzialmente di interesse anche per la legislazione italiana è insito nell’idea che non sono conformi alle disposizioni europee le discipline nazionali che, per una motivazione che non dipenda da una condotta del lavoratore, rendano più difficile per i lavoratori fruire dei diritti loro riconosciuti dalla normativa comunitaria (circostanza che, difatti, violerebbe il principio di effettività di quest’ultima).